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Alla scoperta della speranza nel dolore. Il diario del Cappellano del Gemelli, p. Andrea Stefani ofm

In questa intervista padre Andrea Stefani, frate minore e cappellano del Policlinico Gemelli, ci racconta la sua esperienza di buon samaritano. Dalle vivide parole della sua esperienza raccogliamo il senso della consolazione e la sicurezza che "la vicinanza è la consolazione che Dio può operare".



Come è nata l'idea di questo libro/diario?

Durante il periodo di lockdown ho avuto più tempo a disposizione per riflettere e sentirmi in

qualche modo impegnato a sostenere tanti amici in un periodo di difficoltà per tutti. Potevo farlo

solo raccontando il dono di luce che ogni giorno ricevevo dal mio lavoro in ospedale, non affatto

semplice. Ho utilizzato i social network come strumento di evangelizzazione. Scrivevo le mie

riflessioni e poi le pubblicavo su Facebook e WhatsApp. Avendo avuto un ritorno positivo,

continuai a dire la mia sul vissuto di ogni giorno a partire dal dolore come esperienza comune a tutti

noi. Un amico mi invitò a pubblicarle, mi sembrava troppo… però dietro le sue insistenze mi

convinsi che forse poteva essere utile anche questo strumento. Non sono né uno scrittore, né uno

studioso… ma un “divulgatore”. Così con l’aiuto di esperti scrivemmo bene il testo e proposi la

sfida alle Edizioni di Terra Santa. Loro la accettarono e il libro è diventato una realtà.


Essere cappellani di un ospedale importante in un momento così terribile come quello di una

pandemia non deve essere affatto facile. Come si consola chi perde un parente, un amico, un

marito o una moglie a causa di questo virus? Davvero ci si riesce?

Mi ricorderò sempre la mia difficoltà nell’entrare in Policlinico la prima volta nel 2002… mi

sembrava un luogo ostile. La sofferenza, la morte erano un muro da vincere! Credo che tanti

abbiano questa difficoltà. Ancora oggi assistiamo all’incapacità di alcuni al solo visitare i propri

parenti perché l’ospedale impressiona, perché ci pone delle domande sul senso della vita. Invece mi

fu di grande esempio la presenza di 2 ragazzi di 15 e 13 anni che in mezzo ad un fiume di lacrime,

assistettero insieme alla mamma e alla zia il loro papà mentre se ne stava andando. Lì il posto del

cappellano è ancor più indispensabile dello Scienziato perché siamo il “ricordo” di Dio. Vicino alla

morte si avverte un grande bisogno di sicurezza. Come il buon ladrone che si rivolse a Dio

supplicandolo solo di ricordarsi di lui. Il nostro esserci, senza nemmeno dire una parola, è la

certezza che Dio in quel momento si ricorda di te. Quei ragazzi mi chiesero cosa si poteva fare,

risposi solo pregare perché papà vada in paradiso. Gli parlai un poco del paradiso come luogo dove

tutti ci rincontreremo. Recitammo il rosario e terminato, le lacrime si erano asciugate e loro erano

un po’ più sereni. Quando il papà morì, la zia mi telefonò perché i ragazzi volevano mettere sul

ricordino una frase che avevo detto loro: “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm

8,28). La vicinanza è la consolazione che Dio può operare. Questo virus è spietato perché impedisce

la vicinanza, ma non può nulla su quella di Dio che comunque sa rendersi presente nel cuore di tanti

figli in tanti modi… anche solo attraverso un crocifisso appeso nella parete della stanza, un rosario,

un gesto di benedizione dato da dietro dei vetri, il semplice vedere il frate, un’ostia che facciamo

sempre arrivare. Dio si ricorda di noi!


"In questo suo diario, o zibaldone, come padre Andrea lo definisce si rincorrono storie,

riflessioni e suggestioni spirituali che rendono la lettura agevole e interessante. A rendere

ancora più suggestivo lo scritto, contribuisce anche il ricordo del cammino umano e spirituale

fatto dal cappellano, oggi in servizio al Policlinico Universitario Gemelli, lungo le strade della

Terra Santa e in particolare nei santuari dove si ricordano i momenti salienti della vita di

Gesù".

Così scrive monsignor Giuliodori nella prefazione del suo libro. Fra Andrea qual è il

suo legame speciale con la Terra Santa?

Potrebbe sembrare un argomento scollato dal resto. Invece è una proposta per leggere il vangelo

personalmente, approfondire i testi e interiorizzarli per poi recarsi al momento opportuno lì dove

tutto ci parla di Lui e si avverte una sorta di presenza sacramentale. Il dolore è il più grande dei

misteri che possono allontanare definitivamente chi drammaticamente ne viene toccato. Nel vangelo

non viene proposta una strada per aggirarlo, ma una via per attraversarlo insieme a Dio. Un pellegrinaggio in Terra Santa fatto prima di una malattia aiuta a trovarne il senso, fatto dopo è

vedere che le promesse di Dio si compiono sempre. Andare sul Monte Nebo lì dove Mosè vide solo

da lontano la Terra Promessa, dopo aver condotto per 40 anni un popolo in mezzo a diverse

peripezie, è capire che la Terra Promessa la si raggiunge sicuramente. Non era Gerico che Dio

aveva promesso, ma qualcosa di più grande: Lui stesso. Per questo Mosè morì su quel monte ma

nessuno ha mai trovato la sua tomba, è vuota, non c’è proprio come quella del Risorto.


C'è un'esperienza, una storia, una testimonianza che è accaduta al Policlinico che ti ha colpito

particolarmente in questi mesi?

Nel libro ne racconto diverse e non sono tutte. La parte riservata alle testimonianze forse è la più

bella, perché insegnano a credere nella vita come forza potente, capace di vincere in ogni caso la

morte. Ogni storia porta dentro il segreto della sua vittoria finale: essere in comunione gli uni con

gli altri. Quando c’è questa forza dell’amore il malato comunque si alza dal suo lettuccio di dolore.

A pagina 17 l’ho detto così: “il Policlinico Gemelli è la casa del dolore, dove lo si cura e lo si

accoglie, ma è anche la casa della vita, perché non c’è nessuna vita che non nasca dal dolore. E

comunque vada, dal Gemelli non si esce disperati, ma con la speranza di tornare alla vita normale o

di entrare in quella eterna. Noi tutti qui operiamo per queste due direzioni. Gli scienziati, i dottori,

gli operatori sanitari, gli assistenti spirituali cercano di accendere, ognuno a modo suo, nel cuore dei

sofferenti una legittima speranza perché comunque il dolore di un altro essere umano è il dolore di

tutti noi”. È così che la speranza vince sempre! Ci sono tante storie raccontate nel libro, vi invito a

leggerle. Per me ogni storia raccontata e tutti i malati incontrati, sono stati un dono per diventare

più uomo.


Nel tuo libro citi anche San Giuseppe,  perchè? Quest'anno più che mai, dopo l'anno Speciale

che gli ha dedicato il Papa, abbiamo bisogno della sua intercessione.

il libro si conclude con il capitolo dedicato a Nazareth e lì parlo di san Giuseppe. Vivere la

sofferenza in modo composto, dignitoso, senza maledire nessuno non è affatto semplice. Giuseppe,

per quanto Maria e i sogni gli abbiano spiegato cosa fosse successo, si è sentito un uomo tradito dal

suo stesso Dio. Maria era incinta e lui sapeva benissimo di non essere il responsabile. È intervenuto

un angelo, la stessa Maria per spiegare che era opera di Dio… mi domando se ciò fosse capitato ad

uno di noi quale reazione avremmo avuto? Perché accettò tale difficile verità? Per un amore

davvero passionale, grande, immenso sia per Maria che per il suo Dio. Quando si ama si è disposti a

tutto pur di non perdere l’amato! Guardando questa storia senza la luce del trascendente dobbiamo

dire che Giuseppe per amore ha creduto ad una incredibile storia solo perché conquistato da un

amore senza del quale lui sarebbe rimasto perso! Prima di tutto Giuseppe è stato fedele a sé stesso,

se era vero che amasse Maria poteva credere anche ad una barzelletta pur di non perderla per

sempre. Non era un deficiente che si beveva tutto, ma un innamorato che rende tutto possibile! Il

gesto di rimandarla in segreto a casa sua era di protezione per Maria ma allo stesso tempo il gesto

più nobile che lui potesse fare per dire a Maria io ci sarò sempre per te. Solo per amore poteva fare

quello che ha fatto! Lasciava a Maria la possibilità di scelta senza spezzare nulla, ma soltanto

mettere Maria nella libertà di scegliere, altrimenti non sarebbe stato possibile continuare a vivere un

amore imposto. Giuseppe ci insegna a gestire il dolore con saggezza e dignità, a non lasciarsi

accecare dalla rabbia del dolore!


L'11 Agosto 2020 il tuo diario racconta di  un funerale alla camera mortuaria dove non si è

presentanto nessuno...succede anche questo...

Si, ne rimasi colpito perché era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Non si può non

dare sepoltura dignitosa ai morti. Molti mi dicevano che forse lui in vita non era stato tanto uno

stinco di santo… non abbiamo questa facoltà di giudizio su di un morto e se anche fosse vero, chi di

noi può conoscere le ragioni profonde della malvagità o scrutare perfettamente il cuore di un essere

umano? Con la misura con cui giudicate sarete giudicati.


"Al tramonto della vita saremo giudicati sull'amore". Lo hai scritto sul tuo libro e penso che

non ci sia niente di più vero anche in un ospedale, luogo così importante in questo tempo di

emergenza sanitaria, dove oltre che di cure c'è bisogno di amore.

Fare del bene è una cosa semplice. Qui ci sono mille occasioni per farlo e scopri che davvero

quando hai aperto una bottiglietta dell’acqua ad un malato che non ha le forze per farlo, quando gli

porti un giornale, un caffè… il paradiso è già su questa terra. Scrivo così nella premessa a pagina

16: “il dolore insegna anzitutto che non si può vivere da soli, né per se stessi. La vita è gioia solo se

le relazioni sono vere e generative, solo se il dialogo e l’ascolto sono un esercizio a cui non si

rinuncia mai per essere insieme e in comunione gli uni con gli altri. Nella condizione di sofferenza,

si scopre di avere bisogno della presenza dell’altro, di conforto, di aiuto… ci si accorge che in

quello stato di necessità il mondo appare diverso da come si era vissuto. Il dolore degli altri mi ha

insegnato nella vita tante cose… a stare accanto al malcapitato sempre, visitarlo quotidianamente è

importante. Tessere una relazione di sguardi e contatti che esprimono la tenerezza e la dolcezza

della compassione”.


Qual è l'augurio che fai alle persone che ora combattono contro il male, contro la malattia,

contro  il dolore.? Come cappellano e come frate?

l’augurio che faccio ad ogni malato è di non rassegnarsi al dolore, di non nasconderlo e chiedere

aiuto alle persone vicine, di cercare un sacerdote e di non spendere molti soldi per combattere la

malattia, ma di cercare sempre un modo per attraversarla. Come cappellano di continuare a

raccontare le meraviglie nascoste nelle pieghe della sofferenza… chi sa forse un secondo libro? Non

so, so che come frate ho trovato il mio “lebbroso” da abbracciare e cercherò di continuare ad esserci

perché ciò che mi sembra amaro mi si cambi in dolcezza dell’anima e del corpo.



(Intervista rilasciata alla gent. Sig.ra Veronica Giacometti per Agenzia AciStampa)

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